Mimesis eLit
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Intervista a Elvira Mujčić

Elvira Mujčić: «Con la traduzione sono tornata alla mia lingua madre»
marzo 11, 2017 redazione

Elvira Mujčić, nata e cresciuta nella ex-Iugoslavia, a quattordici anni giunge in Italia come profuga fuggita dalla sua terra in conflitto. Inizia a dedicarsi alla scrittura, che risulta inevitabilmente impregnata della dolorosa esperienza di guerra. Nel tentativo di rimuovere la sofferenza del passato decide di usare l’italiano come lingua di scrittura.

La lingua italiana diventa così una sorta di appiglio, che la porta a una rimozione forzata della lingua madre, il bosniaco, per lei ricordo, traccia e simbolo della sofferenza di un popolo.
Solo quando, nel 2010, le viene chiesto di tradurre dal croato Il letto di Frida di Slavenka Drakulić, Elvira riprende i contatti con la propria lingua. Questa esperienza diventa per lei il primo passo per ritrovare la lingua madre e il vasto mondo che rappresenta per lei.

Ora Elvira Mujčić traduce dal serbo, dal croato e dal bosniaco, tre lingue che presentano sfumature differenti, ma che lei considera come un’unica lingua. Per la collana eLit ha tradotto il romanzo Il mio fiume di Faruk Šehić, vincitore del Premio Letterario Europeo 2013.

 

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Elvira Mujčić presenta il romanzo Il mio fiume 

«Il protagonista dell’opera è l’alter ego dell’autore, Mustafa Huser, un poeta diventato soldato durante la guerra degli anni ’90 in Bosnia. Si tratta di un uomo diviso tra ciò che è stato da bambino e da ragazzino e ciò in cui la guerra l’ha trasformato. Rappresenta due mondi opposti: da un lato l’innocenza e la bellezza dell’infanzia e della natura, dall’altro la violenza e il cinismo della guerra. La spaccatura tra questi due momenti e mondi è lacerante.
Il protagonista ricorre alla forza della parola scritta per ricucire la ferita e diventare un uomo intero.»

Q: Cosa significa tradurre un’opera letteraria?

«La traduzione è una lettura più profonda e più attiva. Essa richiede di mettersi in ascolto e a disposizione della storia e dei personaggi e cercare di comprenderli, per conoscere le sfumature da attribuire alle parole nella traduzione.
Un personaggio ci deve appartenere un po’ se vogliamo trasportarlo nella nuova lingua.»

Q: Quali sono le capacità che vengono richieste a un traduttore per fare bene il suo lavoro?

«Non è necessaria solo la conoscenza della lingua, ma anche della cultura e del mondo dell’autore che si traduce. Questo richiede dedizione, precisione, cura e soprattutto intelligenza e immaginazione.»

Q: Hai incontrato difficoltà nel lavoro di traduzione dell’opera di Faruk Šehić?

«In questo testo Šehić ci porta attraverso i labirinti della memoria: sia quella degli eventi reali, sia quella della sua immaginazione da ragazzino. Seguirlo in questo intreccio quasi onirico non è sempre stato facile e quindi è stato indispensabile consultarlo.»

Q: Quali sono state le maggiori difficoltà nella trasposizione in lingua italiana del bosniaco?

«La lingua bosniaca è una lingua slava, ma con una struttura per certi versi simile a quella latina con i casi e le declinazioni. Personalmente la difficoltà maggiore che riscontro è nei tempi verbali. In bosniaco i salti dei tempi verbali sono molto frequenti anche all’interno della stessa frase, questo spiazza il lettore italiano non abituato a questa dinamica.»

Q: Qual è la dimensione Europea presente nel romanzo di Faruk Šehić?

«Innanzitutto è una dimensione storica. La guerra in Bosnia ed Erzegovina fa parte della storia dell’Europa, per questo motivo il racconto aggiunge un tassello molto importante alla narrazione di quella pagina di storia.
Il testo di Šehić richiama l’Europa su una questione essenziale della sua storia del secondo dopoguerra: quello che si diceva non sarebbe mai più dovuto accadere, è accaduto di nuovo nel bel mezzo dell’Europa.
L’umanità, la crudeltà, l’odio, la disgregazione sono spettri che si riaffacciano continuamente in questo nostro continente e il libro di Šehić parla proprio a questa Europa, che dovrebbe raccoglierne il monito.»