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Intervista a Claudia Tatasciore

Intervista a Claudia Tatasciore: «Un movimento dalla profondità alla superficie»
ottobre 12, 2017 redazione
Claudia Tatasciore, intervista

Abbiamo scambiato due parole con Claudia Tatasciore, giovane traduttrice dalla lingua ungherese del romanzo Il Montecristo comunista di Noémi Szécsi, nono volume della collana eLit di Mimesis e vincitore del Premio Letterario Europeo 2009.

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Claudia Tatasciore racconta il suo percorso di traduttrice

La traduzione mi ha sempre affascinato e ho ancora ben impresso nella memoria il momento in cui, liceale, leggevo La peste di Albert Camus e per la prima volta nella mia testa ho preso coscienza dello “scarto” della traduzione: dietro il libro che stavo leggendo mi sono immaginata una figura reale, il traduttore, alle prese con l’opera. Da allora ho vissuto il mio rapporto con le lingue di studio – inglese, francese e tedesco al liceo e tedesco, ungherese e inglese all’università – con quel pallino in mente.

Per la tesi di laurea triennale mi sono appassionata a una grande scrittrice ungherese, Magda Szabó, e sono andata appositamente a pescarmi uno dei libri che non era ancora stato tradotto in italiano, in modo da potermi cimentare per la prima volta nella traduzione di alcuni brani inseriti nella tesi (e sono felicissima che, a distanza di anni, ho potuto lavorare sullo stesso romanzo, Affresco, con una traduzione a quattro mani con Vera Gheno, uscita quest’anno per la casa editrice Anfora).

Dopo la laurea specialistica, il mio dottorato è stato in Teoria della traduzione. Confrontarsi con l’analisi e la critica di traduzioni già esistenti (non necessariamente a caccia dell’errore ma al contrario, alla ricerca delle soluzioni già felici e della sensibilità traduttiva manifestata nei testi) è stato un esercizio davvero importante. Poiché avevo bisogno anche di cimentarmi nella pratica, ho trascorso il mio ultimo anno di dottorato presso l’Istituto Balassi di Budapest, seguendo un master in traduzione letteraria dall’ungherese. Questa è stata l’esperienza che ha dato una svolta al mio percorso di formazione. Una pratica quotidiana della traduzione, tantissime letture, incontri con scrittori, traduttori, editori… Un anno molto intenso, anche duro, ma alla fine sapevo cosa volevo.

Il primo lavoro come traduttrice è poi arrivato l’anno successivo, con la proposta di Corbaccio di tradurre le lettere dei soldati della Wehrmacht per il volume della storica francese Marie Moutier (Lettere dei soldati della Wehrmacht, Corbaccio 2015). È stato un lavoro molto bello, profondo, ho sentito una forte responsabilità nella resa delle parole che i soldati dell’esercito nazista scrivevano ai loro cari.

Dal tedesco finora (a parte una collaborazione per un romanzo young-adult) ho tradotto soltanto saggistica e articoli di giornale. Mentre dall’ungherese ho tradotto principalmente letteratura.
Il Montecristo comunista di Noémi Szécsi uscito per la collana eLit di Mimesis Edizioni, è il primo lavoro che mi è stato affidato per intero.

Oltre a tradurre, tengo dei corsi di lingua tedesca alla Scuola di Scienze Politiche dell’Università di Bologna e presso la Scuola Superiore per Mediatori Linguistici “Carlo Bo”, dove insegno anche traduzione specialistica dal tedesco.

Claudia Tatasciore presenta Il Montecristo comunista di Noémi Szécsi

«Il Montecristo comunista è un romanzo complesso e avvincente. Ripercorre la storia ungherese che va dalla Repubblica dei Consigli alla rivoluzione del ’56 ed è contemporaneamente un romanzo familiare, perché il protagonista è il bisnonno della narratrice. L’intreccio tra la linea storica e quella familiare è estremamente significativo, mantiene viva la domanda della generazione presente su un passato che risulta ancora faticoso e gravoso comprendere e digerire.
È un romanzo in cui non ci sono eroi perché la storia del Novecento ungherese (ed europeo) è troppo complessa e sfaccettata per offrire figure solo positive (o solo negative), ed è dissacrante nel modo in cui inserisce personaggi politici realmente esistiti nella diegesi.
Uno dei motivi per cui ho amato particolarmente tradurlo è perché, come tanti altri esempi della letteratura ungherese contemporanea, è un testo dal diffuso sapore ironico, che sprofonda in momenti di assoluta tragicità e drammaticità. Anche in prospettiva traduttiva, questa caratteristica fa sì che la storia narrata, pur nella distanza culturale e nella scarsa conoscenza da parte del pubblico italiano di alcuni capitoli della storia ungherese, possa penetrare nel vissuto emotivo del lettore italiano.»

Q: Cosa significa tradurre un’opera letteraria?

«Mi piace pensare alla traduzione letteraria non soltanto come un “servizio” fatto all’opera tradotta, per la sua diffusione e circolazione, ma come un arricchimento anche della lingua e della cultura di arrivo. Quindi è uno stimolo continuo ad aprire gli orizzonti della propria lingua.»

Q: Quali sono le capacità che vengono richieste a un traduttore per compiere bene il proprio lavoro?

«“Far bene il proprio lavoro” vuol dire per me fare il bene dell’opera su cui si lavora. Garantire un testo di qualità – e la sua diffusione. Dunque una delle capacità fondamentali per un traduttore letterario credo si possa identificare visivamente con un movimento: dalla profondità alla superficie, dalla concentrazione quasi autistica all’interconnessione. Questo vale per il processo traduttivo, in cui penetrare a fondo in ogni singola frase non vuol dire dimenticare il testo nel complesso, il suo respiro, il suo ritmo. Ma vale anche per la professione in sé: credo faccia parte della professionalità di un traduttore impegnarsi a “promuovere” il libro tradotto. Certo con canali, mezzi e forse finalità differenti dall’editore. Facendo rete appunto con altri traduttori ed esponenti del mondo culturale, creando o partecipando a occasioni di diffusione della letteratura in questione. Questo vale tanto per il contesto di arrivo che per la sfera letteraria di partenza e credo sia molto importante che il traduttore abbia ben presenti i meccanismi di produzione del libro, oltre alle necessarie competenze letterarie che deve dimostrare…»

Q: Recentemente hai lavorato anche alla traduzione di Affresco, di Magda Szabó; nel romanzo La porta, probabilmente il più letto e conosciuto dal pubblico italiano, è possibile cogliere un’incredibile ricchezza lessicale: è un tratto della scrittrice o insito nella lingua?

«Ogni lingua, a suo modo, ha una grande ricchezza lessicale, non credo che si possa parlare di lingue più o meno ricche di altre. Quello che però emerge in traduzione è spesso che la ricchezza della lingua di partenza tocca aspetti della vita e del mondo diversi da quelli della lingua di arrivo. Questo vale chiaramente anche per l’ungherese, dove ad esempio – per l’esperienza delle mie letture – è spesso nella descrizione della natura che si esplicita l’infinita varietà di particolari che la lingua ungherese è capace di esprimere. Ciò chiaramente costringe il traduttore a ricercare o ricreare questa ricchezza anche nella propria lingua (e con propria intendo contemporaneamente la lingua di arrivo, e il proprio idioletto).

Poi chiaramente c’è il discorso della lingua propria di uno scrittore, ed è vero che la scrittura di Magda Szabó si distingue per un’incredibile ricchezza lessicale, diciamo per la capacità di sfruttare al massimo le possibilità della propria lingua. Nel caso specifico di Affresco – che è costruito sulla successione di monologhi interiori dei diversi personaggi – è la sfera interiore dell’uomo a essere presentata nelle minime sfaccettature e colpisce la capacità di Szabó di restituire a ciascun personaggio la propria voce.»

Q: Sembra che la presenza e l’insegnamento critico ed estetico di Lukács, lasci più di una traccia ne Il Montecristo comunista. In particolare emerge quell’idea di romanzo come epopea di un antieroe, la cui avventura diviene progressivamente un viaggio di scoperta interiore e del suo rapporto con il mondo in cui vive: come evolve il nostro protagonista? Inoltre, il titolo fa riferimento esplicito al capolavoro di Dumas, tinto di marxismo: i travestimenti del protagonista Sanyi ricordano quelli di Edmond Dantès; ma c’è una differenza sostanziale: non è la vendetta il sentimento intorno cui il romanzo è costruito. Di cosa si tratta invece? Cos’altro accomuna o allontana i due protagonisti?

«È vero, la seconda vita di Sanyi ricorda i travestimenti di Dantès. Inoltre c’è un punto nel romanzo in cui Sanyi legge effettivamente il romanzo di Dumas. Ma proprio il modo in cui avviene l’“incontro” con questo libro è indicativo della lontananza tra i due protagonisti, che si avvicinano quindi per antitesi.
Sanyi trova Il Conte di Montecristo per caso in una soffitta in cui si nascondeva, ma ne trova solo il secondo volume, per cui comincia a leggere il libro da lì, non dall’inizio, e inoltre non riesce a terminarlo perché nella sua fuga dall’Ungheria viene arrestato.
Anni e anni dopo, quando ormai si avvicina la sua fine, ripensa al libro e vorrebbe tanto riprenderlo in mano perché gli sarebbe piaciuto terminare la lettura del libro “per sapere cosa succedeva all’evaso dalla barba lunga e lo sguardo affranto”. Cioè vorrebbe riuscire a capire cosa succederà a lui. Questo modo di rapportarsi al libro è emblematico del modo di rapportarsi alla propria storia. La vendetta di Dantès presupponeva il raffinatissimo calcolo, mentre nel percorso di Sanyi sembra prevalere la casualità.

L’opera di Szécsi è stata definita un libro sulla stupidità politica: ovvero l’incapacità di leggere attraverso le situazioni, di prevedere. Sanyi, che nella sua storia compie anche azioni deplorevoli, è e rimane in fondo un ingenuo e si conferma un antieroe proprio nei momenti in cui il suo comportamento apparentemente eroico è del tutto fuori posto e fuori tempo. In questo modo il romanzo riflette perfettamente la drammatica complessità che la generazione attuale sperimenta nel rileggere il proprio passato e la tensione che ancora oggi caratterizza il rapporto con la storia recente.»

Q: Hai incontrato difficoltà nel lavoro di traduzione dell’opera di Noémi Szécsi? Ritieni importante il contatto diretto con gli autori? Hai avuto modo di confrontarti con lei?

«La traduzione del romanzo di Noémi Szécsi è stato un lavoro molto complesso, perché ha richiesto di mettere in campo non solo competenze linguistiche, ma anche competenze storiche che è stato necessario peraltro approfondire e arricchire. Il tono satirico del testo implica il ricorso a numerose allusioni: è stato necessario quindi fare ricerche per cogliere tali allusioni, e poi riflettere attentamente per renderle in maniera tale che anche il lettore italiano potesse apprezzarle, senza che il romanzo acquisisse toni didascalici. In tutto ciò, il consulto con l’autrice è stato molto importante. Soprattutto quando i rimandi non erano tanto a fatti storici, ma ad oggetti (manifesti, immagini, documenti) che fanno parte della memoria collettiva del paese o che la riattivano.
In generale ritengo che per il traduttore sia prezioso potersi confrontare direttamente con l’autore e, nel panorama letterario ungherese, devo dire che c’è una particolare propensione e apertura a questa interazione e una generalizzata disponibilità da parte degli scrittori.»

Q: Quali sono i tratti distintivi della lingua ungherese? Quali sono state le difficoltà maggiori nella trasposizione in lingua italiana?

«Una delle particolarità dell’ungherese è quella di avere un solo tempo passato. Questo aspetto porta con sé, in letteratura, lo sviluppo di particolari strumenti e strategie per l’espressione della successione cronologica, da una parte, e l’espressione – per dirla con Weinrich – dell’attitudine verso la materia narrata, dall’altra.
In traduzione bisogna fare molta attenzione a rendere entrambi gli elementi ed è un’attenzione che è stata tanto più necessario dedicare a Il Montecristo comunista, in cui i salti temporali erano più che frequenti, ma dove per la resa in italiano non potevo fare affidamento alle conoscenze storiche del lettore affinché si orientasse nella sovrapposizione dei piani temporali.»

Q: L’opera che hai tradotto è stata vincitrice del Premio Letterario Europeo, il cui scopo è diffondere i valori letterari europei che trascendono i confini nazionali. Se esiste, qual è la dimensione Europea presente nel romanzo di Noémi Szécsi?

«I rivolgimenti storici che vengono presentati nel romanzo sono parte dell’identità ungherese, ma sono anche parte dell’identità europea. L’invito a ripensare il Novecento avviene quindi in una dimensione non unicamente nazionale.»

 

*Claudia Tatasciore a Chicago, IL, U.S.A.
(sullo sfondo, il palazzo dei Blues Brothers)